Silvio Ortona
Ero diverso: ufficiale ed ebreo
Come nacque "Che importa se ci chiaman banditi"
"l'impegno", a. XV, n. 2, agosto 1995
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
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La Comunità ebraica di Milano ha organizzato il 7 maggio scorso un convegno incentrato sul
tema "liberazione" articolato in tre punti: un testo biblico (il rotolo di Ester); la partecipazione di ebrei
alla Resistenza; le vicende di ebrei esuli da paesi afro-asiatici. Silvio Ortona era tra i relatori sul secondo
punto: ne pubblichiamo l'intervento e una breve testimonianza che prende lo spunto da un episodio accaduto
in quell'occasione.
Mi ero laureato il 30 giugno 1937. L'indomani mi presentai al reggimento per il servizio militare
quale ufficiale di complemento. Pochi mesi dopo sarei stato messo in "congedo assoluto" per motivi
"razziali", decisione che mi salvò la vita: non ho rivisto nessuno dei miei commilitoni, perché quel reggimento sparì
in Russia.
Gli amici di quel tempo erano, naturalmente, i compagni di università, cattolici e valdesi; un solo ebreo,
che morì poco dopo. Non eravamo né fascisti né antifascisti, una posizione che oggi mi appare
quasi incomprensibile. Temo però che anche adesso, malgrado le maggiori opportunità offerte dalla
democrazia, molti giovani siano su posizioni di analoga indifferenza.
Le istituzioni fasciste facevano per noi parte della realtà oggettiva, del mondo in cui si viveva, della
natura. Eravamo stati iscritti alla Milizia universitaria non per adesione al fascismo, ma perché con i suoi
corsi premilitari permetteva di sbrigare più rapidamente il servizio. Ma non ci eravamo laureati - come era
d'obbligo - in camicia nera: poiché esisteva una alternativa, avevamo scelto di indossare, quel giorno, la divisa militare.
Senza nessun merito, dunque, ma soltanto perché provocato, divenni, con la campagna della razza del
1938, antifascista, un antifascista oggettivo, passivo, povero di idee ed ideali. Ma qualcosa di importante
deve essere successo - senza che ne avessimo chiara coscienza - in quell'anno, se tutti i miei amici (e non
per solidarietà con gli ebrei e con me, ma per motivi generali, anche se confusi) scoprirono di essere contrari
al regime. Molte fotografie, specialmente di montagna, documentano la continuazione di quelle amicizie
fino a guerra già iniziata.
Fu un momento traumatico quello in cui uno dopo l'altro gli amici furono richiamati alle armi per
una guerra contro la quale erano ormai interiormente schierati. Mi parve allora di venir meno alla solidarietà
con loro, all'amicizia.
Ebbi nuovi amici, ebrei. Trovammo lavoro - un gruppo di giovani ebrei torinesi - a Milano, perché, come
là si diceva, "A Milàn laùren
tucc", anche gli ebrei ai quali il fascismo voleva impedire di lavorare.
Mi pare indispensabile a questo punto riportare un passo dal "Sistema periodico" di Primo Levi
(capitolo "Oro"): "Uscirono dall'ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai,
e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina
nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent'anni, e ci spiegarono
che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia;
non aveva soltanto trascinato l'Italia in una guerra ingiusta e infausta, ma era sorto e si era consolidato
come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto
incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla
menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava".
Il racconto collettivo di Primo termina con l'8 settembre del 1943 (di lì comincia il suo personale
viaggio agli inferi): "Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa".
La mia fu una scelta fortunata. Circostanze casuali mi portarono a metà settembre nel Biellese, dove già
si stava formando un precocissimo movimento partigiano. Non ne dirò qui le vicende. Mi avvenne di essere
tra i fondatori della 2a brigata "Garibaldi", la quale avrebbe poi figliato due divisioni di tre brigate ciascuna,
più i servizi. Può essere più interessante informare sulla sua composizione iniziale: i partigiani erano
in maggioranza giovani, anzi giovanissimi; pochi erano i soldati provenienti dalle guerre fasciste
(sarebbero arrivati dopo un po') c'erano alcuni anziani militanti operai; il tutto diretto da pochi comunisti, reduci
dalla prigione e/o dalla guerra di Spagna (personaggi perlopiù di alta e nobile levatura).
In questo ambiente (ma me ne resi conto poco a poco) ero per taluni aspetti un diverso. L'aspetto
principale di diversità derivava dal fatto che ero stato "ufficiale". Soltanto molto tempo dopo capii che questo
voleva dire, per i giovani e meno giovani compagni, una differenza di classe, dal che derivava una iniziale diffidenza,
rapidamente superata dalla pratica. L'essere ebreo era un altro fattore di diversità, ma a dire il vero di
scarsa importanza, perché i più non sapevano se non molto vagamente che cosa fosse un ebreo; gli avvenimenti
e la stessa propaganda nemica portarono qualche informazione in più dal che derivo, mi pare di
ricordare, un'aggiunta di simpatia nei miei confronti.
Nella mia famiglia dal lato paterno cinque sono stati i deportati (senza ritorno), quattro dal lato materno.
È così all'incirca per tutti noi. Suona grottesco e perfino macabro dire che gli ebrei sopravvissuti sono
ebrei fortunati. Eppure tale mi considero, e non soltanto per la sopravvivenza.
Ho cercato di fornire, nei precedenti dati biografici, elementi sui quali si possa esercitare il giudizio:
chi cercasse una motivazione nella mia - e forse di altri - partecipazione alla Resistenza rimarrà sorpreso -
e deluso - per aver trovato così poco: una pressione oggettiva cogente e una tardiva ricerca e scoperta di
un poco elaborato concetto di democrazia.
Eppure pare a me che qualcosa di peculiare e valido anche per il presente se ne possa trarre.
In uno dei suoi "Quaderni del carcere" Antonio Gramsci dichiara la sua adesione di massima alla
tesi, formulata da Arnaldo Momigliano, secondo la quale gli ebrei italiani avrebbero avuto la ventura di
"formarsi una coscienza nazionale italiana" (pur conservando "peculiarità ebraiche") in parallelo con la
formazione della coscienza nazionale "dei piemontesi e dei napoletani o dei siciliani": "un momento dello stesso
processo; e vale a caratterizzarlo". Pare a me che questa teoria abbia, sì, un fondamento, ma serva a spiegare
soltanto in piccola parte la peculiare collocazione degli ebrei in Italia. Tuttavia essa può essere, su un piano
diverso e forse più valido, riproposta con riferimento alla Resistenza.
Molti di noi, ebrei della mia generazione, si sono formati una cultura e coscienza democratica mentre se
la formavano milioni di altri italiani della stessa generazione; ciò attraverso le dure esperienze di quegli
anni. A noi, italiani ebrei e non, toccò in sorte di passare dall'adolescenza o dalla giovinezza alla maturità
in quegli anni grandi e terribili, che sono stati determinanti per la storia successiva.
Sono passati pochi anni da quando Primo Levi scriveva "Se non ora quando?" ed introduceva il
"palestinese" Chàim per spiegare al gruppo di Mendel le stranezze dell'Italia, dove "gli ebrei italiani [...] non
parlano jiddisch [...] si vestono come gli altri, hanno le stesse facce degli altri [...] e [...] appunto non si
distinguono" dagli altri. L'Italia e gli italiani di oggi sono sensibilmente diversi da quelli raccontati da Primo,
attraverso Chàim, soltanto una quindicina di anni fa. Ma certamente la parzialità delle tesi di Momigliano-Gramsci
e di Levi-Chàim non elimina la peculiarità della nostra storia. Nelle nostre esperienze resistenziali non
furono scindibili le motivazioni ebraiche da quelle italiane, perché l'azione si collocava di per sé,
spontaneamente, naturalmente, in un quadro più generale - anche se vissuto con ingenuità e approssimazione -, quello
della conquista democratica per tutti, in Italia e - questo è anche importante - anche in Europa, e idealmente
nel mondo.
Ebbene, credo che proprio in ciò risiedano valori validi anche per le successive generazioni di ebrei
italiani (e di italiani non ebrei), oggi, in particolare, quando vi è motivo di temere che quella conquista, buona
per ebrei e non, possa essere minacciata.
Non siamo storici, ma testimoni. Mi pare particolarmente importante ricordare e far conoscere taluni
elementi formativi peculiari degli ebrei italiani, di cui altri felicemente possono giovarsi.
Scriveva Geremia (29,7): "Cercate il benessere della città dove vi ho esiliato, pregate il Signore per
essa, poiché dal suo benessere dipende il vostro".
È noto che personalmente non mi sento "esiliato"; ma tanto più considero essenziale l'appello del profeta
in quanto non è in gioco soltanto il benessere.
Durante il convegno di Milano del 7 maggio sedeva accanto a me un altro ex partigiano, il cui intervento
alle mie orecchie suonò retorico, di quella retorica ammissibile allora, in corso d'opera, meno, forse, oggi.
Di quell'impostazione, peraltro, fui beneficiario, perché vennero citati i due ben noti versetti: "Che
importa se ci chiaman banditi / il popolo conosce i suoi figli".
Di qui una buffa conseguenza. Nacquero in me, dopo cinquant'anni, due strane "voglie": quella di
rivendicare la composizione di quelle strofe, di cui unisco il testo originario completo; quella di ricostruire, per
quanto possibile, la via attraverso la quale alcune di quelle strofette diventarono, dopo la guerra, di uso generalizzato.
Per quanto riguarda il primo punto, racconto la storia, sperando di trovare ancora qualcuno in grado
di precisare qualche dettaglio.
Nel gennaio 1944 noi del "Bandiera" eravamo accasermati al Bocchetto Sessera. Non so come fossimo
venuti in possesso di pochi candelotti di dinamite, probabilmente provenienti dalle cave della Balma.
Nessuno sapeva come usarli, salvo Dan, il gigantesco australiano, minatore di professione. Neppure so come ci
venne in mente di usare quell'esplosivo per sabotare la condotta forzata della remotissima centrale elettrica di
Pont Saint Martin. Occorre tener presente che eravamo, come partigiani, dei principianti e forse ancora
un po' dilettanti. Per quanto mi riguarda credo abbia giocato anche il gusto, che mi ha tenuto compagnia fino
a pochi anni fa, delle lunghe camminate in montagna.
E così partimmo in cinque, stivati in una piccola automobile, presa - diciamo - in prestito. Gli altri
quattro erano: Dan naturalmente, un altro australiano (Alessio),
Riccio e Caino (questo quinto nome l'avevo dimenticato; Caino nell'83 è venuto su dalla Sicilia, ed è stato lui a richiamarmi l'episodio).
Passata la notte con i compagni del "Bixio", che mi pare fossero allora al Verney, il mattino dopo
traversammo (non facilmente, in quella stagione) il colle della Lace e, nel pomeriggio, Dan fece il suo lavoro con esito - direi - scarso. Ma non nullo, come risulta da un "mattinale della Questura di Vercelli" del 27 gennaio
1944, pubblicato da "l'impegno" nel settembre 1986: alcune fabbriche del Biellese quel giorno (almeno)
non poterono lavorare "per mancanza di energia elettrica, per guasti causati alla centrale elettrica di Ponte
S. Martino".
Verso sera arrivammo al santuario di Trovinasse (mi pare che avesse cominciato a nevicare),
dove commettemmo vari reati: effrazione, violazione di domicilio, furto e abboffamento con generi
alimentari preziosi (pasta bianca, burro, caffe-caffè, zucchero e non ricordo che altro). A sera tarda prendemmo
una sontuosa Lambda ad Andrate, che il proprietario avrebbe recuperato a Tavigliano.
Cosa c'entra tutto questo con l' "A morte il fascio repubblican"? C'entra, perché al "Bixio" avevamo
sentito cantare, sull'aria dell' "Inno a Oberdan", delle strofette composte lì, ma - non se la prendano i compagni - proprio brutte. Il motivo mi parve degno di parole migliori.
E fu così che qualche tempo dopo nacquero, con la collaborazione di Nino Banchieri (poco dopo,
malato, andò via, e non l'ho più rivisto), le strofette poi diventate parzialmente celebri.
Data la coesistenza (e la compatibilità; qui il discorso sarebbe lungo, e questa stessa strofa ne
costituisce documento) della politica di partito con quella di unità nazionale, aveva carattere per così dire
facoltativo un'altra strofa:
"Nel segno di falce e martello
lottiamo per il popolo nostro
domani sarà il giorno più bello
quando saremo in libertà".
Il tutto suona oggi - come dicevo in principio - retorico, ma allora era diverso. Per redimermi posso
aggiungere di avere composto, oltre la canzone, anche la sua parodia (che non ebbe però grande corso): "Evviva il
fascio repubblican". Ne ricordo uno spezzone:
"Ci dicon che presto
avrà fine la nostra felice baldoria
per ora bruciamo cascine...".
Secondo punto: la storia della fortuna delle strofette è affidata alla memoria altrui. Questo risveglio
dopo cinquant'anni, anzi cinquantuno, appare goffo anche a me. Dev'essere effetto dell'età.
"Portiamo l'Italia nel cuore
abbiamo il moschetto alla mano
a morte il tedesco invasore
noi vogliamo la libertà.
A morte il fascio repubblican
a morte il fascio, siam partigian
Che importa se ci chiaman banditi
il popolo conosce i suoi figli
vedremo i fascisti finiti
conquisteremo la libertà
A morte...
Onore a chi cade in cammino
esempio per chi resta a lottare
da forti accettiamo il destino
nel sacro nome di libertà.
A morte...
In piedi chè il giorno è vicino
avanti Seconda Brigata
compagni già sorge il mattino
l'alba serena di libertà.
A morte...".
(Ndr) Per note e rimandi bibliografici su questo canto si veda Cesare Bermani,
Le canzoni del Raggruppamento divisioni d'assalto "Garibaldi" della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano,
in "l'impegno", a. V, n. 4, dicembre 1985, p. 26 e note. Una versione discografica del canto è contenuta in: Sergio Liberovici - Michele
L. Straniero, Canti della Resistenza europea. 1933 - 1963,
Edizioni discografiche Dgn, Glp 81003-4-5,
Torino, 1963 (cofanetto, tre dischi e
booklet), canta Michele L. Straniero con arrangiamento di Sergio
Liberovici, eseguito da Fausto Amodei e da un complesso strumentale. Nel
booklet allegato è riportato il testo
della canzone con l'aggiunta della strofa che Ortona definisce "facoltativa": "Nel segno di falce e martello
/ lottiamo per il popolo nostro: / domani sarà il giorno più bello / che noi vivremo in libertà. / A morte
ecc.", con l'indicazione: "Parole di Silvio Ortona e Nino Banchieri sull'aria dell' "Inno di Oberdan
(1883)". Sempre in nota al disco è riportata la testimonianza di Silvio Ortona, "registrata al magnetofono":
"Nel gennaio del '44 eravamo al Bocchetta
[sic] Sessera e veniamo in possesso - per la prima volta nella
nostra vita - della dinamite. Ce n'era tanta così. Credevamo che fosse una cosa molto potente. Allora siamo
partiti in cinque su di una macchina per andare a danneggiare (noi volevamo far saltare per aria, addirittura)
la condotta forzata della centrale elettrica di Pont St. Martin, in Valle d'Aosta. Figurati! Ha fatto 'pit!' e
la centrale elettrica è rimasta dov'era. Comunque per andare lì passammo dal Vernei dove c'era il 'Bixio',
un altro distaccamento, e quando siamo arrivati lì cantavano questo 'Inno di Oberdan' con parole partigiane
ma molto brutte e proprio senza senso. Però l'aria di questo inno è notoriamente molto bella. Allora
siamo rimasti invogliati a fare - su quella melodia - delle parole migliori. Le parole le abbiamo fatte io e un
altro che si chiama Banchieri e che non so più che fine abbia fatto".
Una versione del canto, con il titolo "Cosa importa se ci chiaman banditi" è riportata in
Canti della Resistenza armata. Canzoniere della protesta 2,
Milano, Edizioni Bella Ciao, 1972. Identica nel testo delle
strofe, presenta un ritornello raddoppiato e variato: "A morte il fascio repubblican, a morte il fascio, siam
partigian. A morte il fascio repubblichìn, a morte Hitler, viva Stalin".
Sull' "Inno a Oberdan" si veda A. Virgilio Savona - Michele L. Straniero,
Canti della grande guerra, Milano, Garzanti, 1981, pp. 200-203. Guglielmo Oberdan, triestino, fu arrestato nel settembre 1882
perché accusato di voler attentare alla vita di Francesco Giuseppe, imperatore d'Austria; impiccato il 20
dicembre dello stesso anno, divenne immediatamente il primo martire dell'irredentismo. Nel loro libro Savona
e Straniero riportano la versione originale dell'inno e la versione eseguita durante la prima guerra mondiale.
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